lunedì 11 maggio 2015

Buongiorno, buonasera, salve, benvenuto.

Buongiorno, buonasera, salve, benvenuto, a te: lettore di cui ignoro il nome.

Ci tengo a farti presente del fatto che questo blog parlerà di noi due, di come la viviamo, la musica.
Non ho le basi per parlare tecnicamente di come vengono composti i brani e quindi non parlerò di ciò, ma scriverò delle ultime novità nel campo musicale, di quei gruppi che non si caga nessuno perché non abbastanza commerciali, o più semplicemente di personaggi più o meno noti di cui apprezzo l'abilità.
Tutto qui.
Non chiamerei ciò che scrivo "recensioni" perché non saranno tali, saranno parole messe in fila che tenteranno di esprimere il mio sdegno o la mia ammirazione rispetto a dei brani, degli album o dei live. Proverò a spiegare perché per me questi suoni risultano come delle sberle o dei dolci baci sul viso.
Per questo, Music's Smacks.

A presto,
e buon ascolto.



sabato 18 ottobre 2014

Nei giorni più caldi la temperatura è a -1°





Voglio farmi del male.

Faccio partire Alaska, per l'ennesima volta da quando è uscito, il terzo giorno di questo mese. Il problema di questo album è che ti fa venire il nodo alla gola perché parla direttamente a te e della tua vita, ed è pressoché il motivo per cui tutti in questo momento vorrebbero odiare i Fast Animals and Slow Kids ma non possono, perché è un disco troppo bello.

Le scuse di Overture "Scusa mi lascio andare un po'" non sono accettabili. Perché a vent'anni, ma anche a cinquanta, tale sfogo emotivo cerca solo una scintilla per poter bruciare e basta aspettare l'esplosione che avverrà solamente 3 minuti e 11 secondi dopo, per sentirsi il fuoco nell'anima. I nostri amici si sono accorti che i suoni opulenti e pomposi di Hybris non sono poi così fastidiosamente tracotanti (come piace dire ad Aimone), tanto che hanno pensato di continuare a correre sullo stesso filo conduttore, solo con molta più rabbia, delusione ed energia a volte negativa. Così da farlo ondeggiare questo filo, pericolosamente. E dato che l'equilibrio non è certo una caratteristica dei nostri Animali Veloci, il filo ondeggia così freneticamente che precipitano dallo stesso, inneggiando una "Odio Suonare" dal significato degno del migliore romanzo Kafkiano.

Poi me li immagino i FASK, rinsaviti dopo la caduta, in riva ad un fiordo nordico, a fissare un mare piatto, un mare proprio del cazzo, in stile "Monaco in riva al mare" di Caspar David Friedrich a chiedersi se quel mare, piatto triste e immobile sia l'unica soluzione, o semplicemente quella più facile da scegliere. Il tutto mentre Maria Antonietta sembra uscire direttamente da Hybris per rispondere al suo aguzzino tramite le urla di "Te lo prometto".

I brani dell'album sono le parole di una persona arrabbiata a morte. Si susseguono cominciando piano, quasi avvisandoti che starà per accadere qualcosa a meno che tu non faccia alcunché per evitarlo. Urlano le proprie note da un luogo distante che immaginiamo arido e freddo, aspro, passando per la casa altrettanto poco accogliente de Il Vincente, una ballad po' più rilassata nei toni, con delle fantastiche dissonanze, ma sempre pungente nei concetti ribaditi fino all'ultimo. Infine si abbandonano in un'ultima sfuriata, Grand Final, giusto per chiarire la situazione.

Volendo puntualizzare, questo album non ha creato uno stacco netto come quello che c'è stato in precedenza tra Cavalli e Hybris, e questo potrebbe aver deluso qualcuno, ma è comunque evidente un'evoluzione di sonorità, ritmi più battuti e pensati, voci meglio organizzate e sicuramente una qualità a livello tecnico di registrazione superiore.

Corrono gli Animali e non c'è tempo per aspettare qualche grasso Bambino Lento. L'unica cosa da attendere ora è il momento giusto per romperci le braccia sotto a quel palco dove, se non lo siamo già, possiamo diventare uno di loro.

"Sarai uno di noi
Sarai uno di noi
Con le mani legate
Ma le braccia rotte
Per la foga con cui
Stai sciogliendo le corde"

Piccola postilla di dovere. Quello che avete letto è frutto della mia penna ma anche di una collaborazione con il sito SpazioRock e quindi se volete leggerlo per intero, cliccate qui.



venerdì 12 settembre 2014

#LAMUSICARINGRAZIA


Ok ragazzi, è arrivato il momento. 
A causa di non so quali motivi, ma probabilmente per Pigrizia, quella amica che mi accompagna ovunque e non solo al bagno, ancora non avevo pubblicato un post nonostante fosse passato un bel po' di tempo dall’ultimo. Ma oggi stringo tra le mani la nuova copia di Rolling Stone Italia e si è scatenato qualcosa.
Non vi parlerò di album, singoli o musicisti questa volta, ma di qualcosa che mi sta molto a cuore, l’informazione musicale. Siamo abituati ad ascoltare la musica, raramente a leggerla e ancora più raramente a leggere qualche articolo, recensione o scritto che parli della storia (vera, non quella citata su Wikipedia) di quella parte della nostra vita così importante ma anche così data per ovvia. 
Ed è qui che fa la sua parte Rolling Stone. Non voglio incitarvi a comprarlo o farne pubblicità ma vorrei solo far sì che vi rendiate conto, se non l’avete già fatto, che è uno dei pochi (se non l’unico) esponente dell’editoria musicale cartacea in Italia. Perché? Davvero non lo so e mi dispiace troppo, è possibile che con così tanta gente interessata all’argomento pochissimi siano disposti a spendere qualche euro per sfogliare un giornale cartaceo invece che farlo online? Non sentono nel profondo una voglia irrefrenabile di aspettare il giorno della settimana in cui esce il mensile per poterne sentire lo spessore delle pagine, la grana della carta, avere quel giornale che vaga per casa o nella borsa e poterlo leggere quando si vuole senza dover sopportare pop-up pubblicitari? Poterlo leggere la sera senza doversi accecare con lo schermo di un computer o di uno smartphone, volerlo rileggere dopo mesi e mesi e trovarlo ancora lì sullo scaffale dove lo si aveva lasciato, non sono piccoli piaceri della vita?
Sto finendo per fare la nostalgica ma volevo solo dirvi che sì, faccio parte anche io della Generazione Y, quella caratterizzata da un maggiore utilizzo e familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali ma SUL SERIO oggi che ho lottato contro il tempo per riuscire ad avere la mia copia di Rolling Stone prima che finisse nelle mani di pazzi collezionisti (che adoro perché come me ancora comprano cartaceo), mi sento bene. Non solo perché è il primo numero dopo un’estate di silenzio, e quindi il risultato di un cambiamento di editore, cambiamento grafico e un ri-inzio della conta dal numero 1, ma perché vuol dire che a qualcuno gliene frega davvero. A qualcuno importava di mandare avanti una testata cartacea invece che lasciarla solo online, a qualcuno interessava dei tanti come me che andavano a chiedere in edicola “oh ma….Rolling Stone? Niente?”. 
Quindi sono felice, per questo. Dovevo dirlo a qualcuno. 
E chi meglio mi capisce se non voi?

#LAMUSICARINGRAZIA ed anche io.




lunedì 18 agosto 2014

Nel Kentucky l’erba è così scura da sembrare blu




Strumenti a corda: chitarra acustica, banjo a cinque corde, mandolino, violino (fiddle) e contrabbasso, con o senza la presenza di una voce.  Questo è Bluegrass, anche se spesso a questi strumenti si aggiunge la chitarra resofonica square - neck e, talvolta, l'armonica a bocca, la autoharp e in alcuni casi la batteria, nonché le versioni elettriche degli strumenti a corda prima citati.
Quel che si suona è il risultato conseguente alla somma di melodie degli immigrati scozzesi e irlandesi trasferitisi nei Monti Appalachi, nella parte orientale degli Stati Uniti d’America, le vocalità nere dei bluesman anni venti e del gospel. Come nel Jazz, così nel Bluegrass, ogni strumento a turno prende il sopravvento sugli altri suonando una variazione improvvisata sul tema, mentre gli altri lo accompagnano sullo sfondo. Rispetto alla ormai fossile old-time music, quella in cui, tanto per capirsi, tutti gli strumenti fanno i bravi ragazzi e seguono insieme la melodia, era un’altra novità che andava a braccetto con il Country.

Ufficialmente questo risultato si palesa nel nostro universo un giorno lontano in un posto altrettanto distante nella piccola comunità rurale di Jerusalem Ridge presso Rosine, in Kentucky. 
Il Bluegrass si rivela nel momento in cui nacque Bill Monroe & The Bluegrass Boys.

Bill Monroe & The Bluegrass Boys - Bluegrass Breakdown

E sono le canzoni di Bill Monroe e il suo Bluegrass ad incantare Didier e spingere avanti la storia della pellicola Alabama Monroe - Una storia d’amore (The Broken Circle Breakdown il titolo originale) film non recentissimo uscito in maggio di quest’anno che ha vinto il premio Cesar come Miglior film straniero e candidato agli Oscar 2014, diretto dal fiammingo Felix Van Groeningen. 
Al di là della storia interessante ambientata in Belgio che il film racconta, è coinvolgente come il battito dei Camperos sul parquettes la colonna sonora caratterizzata dal Bluegrass, protagonista azzeccatissimo e parte rilevante nella trama. La musica è firmata da Bjorn Eriksson, che ha composto alcune canzoni e riarrangiato tutte le altre, oltre che avere suonato la chitarra nel film. 
La parte più consistente dell’ accompagnamento musicale è interpretata dalla The Broken Circle Breakdown Bluegrass band, formatasi al di fuori della produzione del film, della quale fanno parte anche Veerle Baetens e Johan Heldenbergh, gli attori protagonisti del lungometraggio. Devo essere sincera, mi hanno lasciata a bocca aperta sia per le loro abilità canore sia per la capacità di interpretare tramite le espressioni del viso l’esatta emozione che ogni diversa canzone vuole trasmettere. 
Solo per sottolineare quanto questa rinascita del Bluegrass sia stata ben accolta, The Broken Circle Breakdown Bluegrass band dopo la pubblicazione del film ha intrapreso un tour europeo 2014, che ha registrato il tutto esaurito. La band al completo oltre agli attori protagonisti e Björn Eriksson comprende anche Nils De Caster (violino, mandolino, voce), Karl Eriksson (banjo, voce), Thomas De Smet (basso) e Bert Van Bortel (chitarra, madolino, voce).

Mi risulta strano questo ritorno alle origini americane, perché proprio ora, e perché questa voglia improvvisa di educare il pubblico a qualcosa di più colto rispetto al più comune Country? Non so darmi una risposta ma questa operazione mi piace, come tutte quelle che alla commercialità e alla necessità di accumulare denaro uniscono una scintilla che potrebbe creare curiosità nel pubblico, inviando quindi un input che possa spingere la gente ad interessarsi verso qualcosa di diverso.
Per questo apprezzo come Eriksson abbia riarrangiato i vecchi brani come Wayfaring Stranger, tipica canzone folk degli Stati Uniti, trasformandoli in qualcosa di più semplice all’orecchio. Paradossalmente rende i pezzi più orecchiabili aggiungendo particolari e giocando sul ritmo, staccando la melodia dallo schema pressoché ripetitivo del Bluegrass per rendere il tutto meno sterile a coloro che non sono abituati a masticare questo genere, e forse dando al Bluegrass quel “qualcosa” che gli manca per ritornare al passo coi tempi.


Ecco per voi l’elenco dei pezzi della colonna sonora, sperando che come hanno incantato me, possano avere lo stesso effetto su di voi.
1. Will The Circle Be Unbroken - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
2. The Boy Who Wouldn't Hoe Corn - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
3. Dusty Mixed Feelings - Björn Eriksson
4. Wayfaring Stranger - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
5. Rueben's Train - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
6. Country In My Genes - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
7. Further On Up The Road - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
8. Where Are You Heading, Tumbleweed? - Björn Eriksson
9. Over In The Gloryland - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
10. Cowboy Man - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
11. If I Needed You - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
12. Carved Tree In (min 30:10)- Björn Eriksson
13. Sandmountain - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
14. Sister Rosetta Goes Before Us (min 34:42) - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band
15. Blackberry Blossom (min 37:57) - The Broken Circle Breakdown Bluegrass Band


martedì 15 luglio 2014

Turn Blue e il ritorno dei The Black Keys



Ho tentato di scrivere questo articolo probabilmente già tre volte, ma non mi soddisfava mai.
Sta notte, dopo una giornata di finalmente meritato riposo dopo mesi di studio incessante, non sapevo cosa ascoltare di preciso ma sapevo di volere della musica che sa un po' di legno e un po' di pietra, secca e chiara, a volte semplice.
Così accendo Spotify e mi sparo la radio… Franz Ferdinand, The Fratellis, The Kooks, Kasabian. Non era ancora quello che cercavo, nell’attesa di liberarmi dalle voci irritanti di qualche fastidiosa inserzione pubblicitaria, tentando di superare il muro dell’adv della versione free realizzo di aver bisogno di una musica da un retrogusto ferroso e arrugginito, e il collegamento viene praticamente automatico: The Black Keys. Così faccio partire Turn Blue, la cui cover vagamente mi ricorda Vol.4, il disco dei Black Sabbath su cui era stampato un cono che sale in forma di illusione ottica e non sarà la prima citazione che l’album mi farà venire alla mente.

Turn Blue è un’album in completo stile Black Keys, uscito come ottavo album della band il 13 maggio. Dopo tre anni di attesa, secondo alcuni Turn Blue non raggiunge i livelli di Brothers e de El Camino e potrebbe sembrare pesante, ma in realtà è un ritorno al blues greve profondo e desertico che li caratterizza con un'aggiunta di psychedelic rock. 
Fever è la canzone che ci ha contagiati, quella che ti fa dire al primo ascolto “Questi sono i The Black Keys”, quindi quella più commerciale, e che con la voce sempre al limite del depresso di Dan Auerbach ti coinvolge l’anima. Ma il pezzo veramente interessante, uno scalino sopra a tutti, è Weight of Love, 6 minuti e 51 di blues che, Cristo Santo, ci voleva e benedice il ritorno dei due musicisti.
Questo album non è infatti da ascoltare con leggerezza e di sottofondo alla vita, devi ascoltarlo in cuffia e dargli tutta la tua attenzione, è una serie di brani potenti ma che passano un po' tra gli spifferi delle porte, sottili si insinuano della tua testa senza troppa esuberanza e per questo potrebbero rischiare di essere sottovalutati.
Nonostante i Keys siano prevalentemente un duo, qui Brian Burton alias Danger Mouse, loro co-produttore diventa quasi un terzo componente, calcando i suoni aggiungendo questa spolverata fine anni '60 e rendendo questo un album dalla difficile recensione.
Sono stata molto interdetta, cos’è Turn Blue? Un ritorno al blues vero, come potrebbe dire il nome dell’album, oppure un rimescolamento di note già sentite?
Il dubbio sorge con Bullet In The Brain, il cui intro ricorda terribilmente il giro in Mi minore di Breathe dei Pink Floyd, ma in generale si riescono a riconoscere citazioni che vanno dai Genesis ai Beatles, Doors o Radiohead.
Ma del resto, cos’è il blues, se non un gran pentolone di suoni cavernosi che si intrecciano l’uno con l’altro fondendo la storia musicale per creare novità?  


Ecco, ora avrete modo di scegliere se schierarvi con quelli che adorano l’album, o quelli che non lo reputano più che sufficiente. 
Io invece resto nel mezzo. 
Attendo di ingranare bene il ritmo, impastarmi la bocca con i giri di basso e venerare questo disco. Perché in realtà un po’ già lo so che finirò per amarlo, come tutte le cose difficili che all’inizio, spesso per pigrizia, si accantonano in un angolo.
Chi disprezza compra, mi hanno detto.


Turn Blue



domenica 1 giugno 2014

Museica



Ti ricordi le lezioni di storia dell’arte? 

Quelle durante le quali gli alunni si dividono in due fazioni: quella dell’odio profondo, della noia e quella, meno consistente, dell’amore e dell’interesse? 
Ecco, facendo parte del secondo gruppo di alunni, ascoltare Museica di Caparezza è un benefico crogiolarsi in un mare di riferimenti artistici azzeccatissimi al contesto in cui sono inseriti. Da Avrai ragione tu (Ritratto) a Mica Van Gogh, Comunque Dada, Giotto beat, Sfogati, Fai da tela, fino ad arrivare a Teste di Modì, geniale. Anche Cover non scherza, citando appunto l’arte delle cover dei più famosi dischi. Capa con questo album ha centrato l’obbiettivo, potente, non ripetivo e già ci vedo a pogare nel casino al ritmo di Comunque Dada per poi mollegiarci con lo ye-ye di Giotto Beat.

Come ci sono riferimenti al mondo dell’arte in senso lato, la divina commedia, le opere d’arte, il caso delle teste di Modigliani risalente ormai a 30 anni fa; ci sono altrettanti rimandi a differenti stili musicali, i bits anni '60, la classica ballad di piano di China Town, il punk, rap, i suoni gipsy di Non me lo posso permettere e il metal incazzato di Argenti Vive.

Sempre contemporaneo, diretto, con la sua critica sottile nei confronti dei più diversi argomenti e anche con una affilata frecciatina di vendetta con Troppo Politico. La cosa interessante, e forse che rende questo album meno commerciale di altri, è l’impegno che richiede agli ascoltatori. Come credo si intuisca da quello che ho scritto poche righe fa, amo questo disco perché ricco di riferimenti, ma se chi ascolta non ha un minimo di cultura artistica credo non riesca a cogliere a pieno la bellezza dell’album. Quindi la decisione che RezzaCapa ha preso, cioè di inserirsi nel mondo complesso dell’arte, sostenendo la dura missione con dei testi indovinati, è stata un’arma a doppio taglio. Rende le canzoni intriganti ma richiede all’ascoltatore, più o meno ignorante sul tema, una certa ricerca. Per me la cosa migliore del disco è proprio questa, vuoi capire di cosa canta Capa? Apri Google, o meglio, un libro.
Altrimenti… ti piacerà comunque perché “suona bene”, ed è giusto così.




mercoledì 21 maggio 2014

Ocean





Sono qui seduta sul letto col Mac sulle gambe e ascolto Ocean. Solo a questo orario improponibile, mezzanotte e venti, come un’onda che si infrange su uno scoglio mi è venuta la voglia irrefrenabile di scrivere su di lui, nonostante il 6% di autonomia del laptop.Come puoi rimanere impassibile ad un viaggio tra i flutti di 12 minuti e 04 secondi? John Butler è il suo nome. Questo brano ti abbraccia gentilmente e ti culla, come le braccia di una madre, per poi fare una pausa e dirti “oh, è ora di muovere il culo!” e accompagnarti in una passeggiata ritmata che ti sta portando chissà dove, ma incessante aumenta di forza. E tu prosegui. Non ti accorgi del tempo che passa, della fatica che stai facendo e di dove stai andando. Poi rallenti, e ti guardi intorno. Cominci ad ammirare tutto quello che prima non avevi notato, con una tale meraviglia che ti fa venire voglia di correre e allora ricominci prima incedendo sui passi, poi camminando, infine correndo. Osservando in giro questa volta, correndo con lo sguardo al cielo, col rischio di cadere, ma corri, vai, sempre più veloce senza mai fermarti a guardare indietro. Ti manca il fiato ma come l’acqua del mare, non puoi fermarti, puoi casomai rallentare, come rallentano le mani di John sulle corde. Falso allarme, si ricomincia più veloce che mai, senza fermarsi, mai, senza perdersi, mai, andando avanti, perché è quella la nostra strada, perché si va avanti e non importa del passato. Col vento contro il viso, dentro questo incessante viaggio, siamo forse finalmente arrivati? 


John non ha bisogno di troppe presentazioni, non è nemmeno una delle più fresche novità nel campo musicale, ma è un’ emozione continua. E’ un ragazzino di 39 anni, che ne dimostra 10 o 20 di meno. E’ un australiano nato in California con alle spalle 4 album incisi con il nome di John Butler Trio, insieme ad altri musicisti che sono arrivati e passati fino a lasciare il posto agli attuali Byron Luiters e Grant Gerathy. Ha pubblicato due album da solista. Vederlo suonare sfiorando le corde con una tale leggerezza da creare un suono così invadente è un’esperienza. Anche solo dallo schermo del proprio computer, tramite il suo account YouTube.
Devo ammettere che non so molto della sua storia, ma per me la sta facendo.